Questo dossier fa parte degli approfondimenti dedicati all’Agenda 2030 e analizza il target 5: Parità di genere.
a cura di Alice Pistolesi
Durante il conflitto la violenza sessuale continua ad essere una tremenda normalità. Per approfondire i contesti in cui questa avviene in questo dossier analizzeremo il rapporto ‘Conflict related sexual violence’, redatto dalle Nazioni Unite. Il testo, basato su dati e analisi che si riferiscono al periodo che va da gennaio a dicembre 2018, è stato pubblicato nel marzo 2019.
Per prima cosa è necessario capire cosa si intende esattamente per “violenza sessuale connessa al conflitto”? Il testo spiega che questa espressione si riferisce allo stupro, alla schiavitù sessuale, alla prostituzione forzata, gravidanza forzata, aborto forzato, forzata sterilizzazione, matrimonio forzato e ogni altra forma di violenza sessuale di gravità comparabile perpetrata contro donne, uomini, ragazze o ragazzi, che è direttamente o indirettamente collegata a un conflitto.
Dalle risoluzioni Onu lo stupro in contesti di guerra, infatti, non è più visto come un sottoprodotto inevitabile della guerra, ma piuttosto un crimine che è prevenibile e punibile ai sensi della legge internazionale sui diritti umani e del diritto penale internazionale.
Il rapporto si concentra su 19 Paesi e riporta che ad usare violenza sono stati nel 2018 in maggioranza attori non statali, con sei organizzazioni designate come gruppi terroristici secondo risoluzioni del Consiglio di sicurezza. Da rilevare però che sono presenti anche forze armate nazionali forze, polizia o altre entità di sicurezza della Repubblica Democratica del Congo, del Myanmar, della Somalia, del Sudan del Sud, del Sudan e della Repubblica araba siriana.
Nonostante alcuni progressi, l’impunità per gli autori di violenze sessuali legate al conflitto continua ad essere la norma. Un progresso a livello di giustizia arriva dalla Repubblica Democratica del Congo, dove l’alta corte militare ha confermato l’ergastolo di Frederic Batumike, un parlamentare locale e leader della milizia riconosciuto colpevole di crimini contro l’umanità per lo stupro di 39 bambini a Kavumu tra il 2013 e il 2016.
Oltre all’analisi dei territori vittime di stupri oggi, le Nazioni Unite sostengono anche dieci progetti incentrati sui sopravvissuti di violenze sessuali in Bangladesh, Bosnia ed Erzegovina, Repubblica Centraficana, Costa d’Avorio, Iraq, Giordania, Libano, Mali, Myanmar e Sudan del Sud. Importante sottolineare poi che l’analisi si limita agli incidenti verificati dalle Nazioni Unite, che sono però solo una minima parte. Sfortunatamente, infatti, la maggior parte dei sopravvissuti alla violenza sessuale connessa al conflitto è scoraggiata dal denunciare a causa di barriere strutturali e sociali.
Nel corso di questo dossier analizzeremo alcuni aspetti generali del rapporto tra conflitto e violenza sessuale, mentre nel prossimo di martedì 2 luglio entreremo più nello specifico, analizzando alcuni casi.
Violenza, conflitto e spostamenti
La violenza sessuale connessa al conflitto, unita all’uccisione, al saccheggio e allo sfruttamento illecito delle risorse naturali, ha continuato ad esistere nel 2018. Dei 68 milioni di migranti forzati nel mondo, un numero elevato si trova nei 19 Paesi esaminati: molti sono fuggiti dalle loro case a causa di atrocità collegate al conflitto, violenza sessuale compresa.
Donne e ragazze hanno subito violenze sessuali durante gli spostamenti. Altre si trovano in situazioni di rischio costante nei campi profughi o nei campi per sfollati. Queste condizioni di vulnerabilità possono portare ad ulteriori sfruttamenti sessuali come la tratta, lo stupro e la prostituzione forzata. Rifugiati e sfollati hanno riferito di aver subìto violenza sessuale per mano delle autorità statali, di gruppi armati, di contrabbandieri, di trafficanti e di chi controlla risorse e servizi in contesti umanitari.
In questi contesti capita che i genitori costringano le loro figlie giovani a sposarsi precocemente in modo da ridurre il rischio di sfruttamento da parte di estranei o per ottenere l’accesso alle risorse per il resto della famiglia. Inoltre la violenza di genere, profondamente radicata, come quella del proprio partner, persiste e può aumentare in contesti di spostamento e di reinsediamento.
Politica di violenza
Un altro aspetto fondamentale legato alla violenza sessuale è quello che riguarda la politica e l’opinione. Lo stupro è stato a lungo usato per intimidire e punire gli oppositori politici, la loro famiglia, i difensori dei diritti umani. Secondo il rapporto Onu l’uso di la violenza sessuale come forma di intimidazione politica ha un impatto negativo sulla partecipazione civica, in particolare tra donne.
I bisogni delle vittime nel post-conflitto sono diverse da contesto a contesto. In Somalia e nella Repubblica Centrafricana, le donne sono state prese di mira insieme altri membri della famiglia a causa della reale o della percepita affiliazione dei mariti o figli a questo o quel gruppo.
Una tendenza inquietante rilevata nel 2018 è poi quella della violenza sessuale perpetrata contro ragazze e ragazzi molto giovani, ad esempio in Afghanistan, Burundi, Repubblica Centrafricana, Repubblica Democratica del Congo, Myanmar, Somalia, Sudan del Sud, Sri Lanka, Sudan (Darfur) e Yemen. L’analisi sul 2018 conferma che la violenza sessuale continua ad essere parte di una più ampia strategia di conflitto. Viene infatti usata per spostare comunità, espellere i cosiddetti gruppi “indesiderabili” e per conquistare terre contese e altre risorse.
Un esempio arriva dal Sudan del Sud, dove le milizie alleate hanno violentato donne e ragazze come parte di una campagna per cacciare gli avversari dalla regione. La violenza sessuale è stata usata come mezzo di repressione, terrore e controllo anche nella provincia di Tanganica nella
la Repubblica Democratica del Congo. Le milizie di Luba hanno infatti violato donne, ragazze e ragazzi delle altre comunità etniche. E ancora nella Repubblica araba siriana e in Burundi, persone in armi sono state stuprate e detenute in condizioni umilianti perché percepiti come oppositori politici.
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